Riflessioni sul linguaggio fotografico

In un interessante articolo dal titolo: La fotografia come testo e come discorso, uscito su “Figure”, Kappa, Roma 1985, lo studioso di comunicazione Omar Calabrese analizza il modo di indagare la foto come testo, la sua portanza comunicativa.Lo studioso comincia con l’individuare quelli che chiama limiti testuali ovvero “quell’insieme di vincoli materiali che ne fanno il prodotto di una operazione di comunicazione e di significazione”.[1]

E ne individua quattro:

  • Organizzazione di un materiale pro-filmico

Quando si decide di fare una foto, sia anche un’istantanea, in realtà si mette in scena (si organizza) una scelta più o meno consapevole. Si inseriscono determinati elementi, escludendone altri, si organizzano volumi, stilemi compositivi fino al limite di costruire una vera e propria rappresentazione concettuale della realtà, come nel caso dello still life.

  • Organizzazione della ripresa

Qui entra in gioco l’apparecchio fotografico col suo linguaggio specifico. Si riduce lo spazio tridimensionale alle due dimensioni della pellicola e si organizzano gli spazi della foto in relazione a quelli reali tramite le specifiche dell’obiettivo. Si prendono in considerazione parametri come il tempo di ripresa, la messa a fuoco, il taglio della luce, si prevede quella che sarà la resa dell’immagine in funzione della pellicola usata. Compare quello che Calabrese chiama l’”occhio enunciante”[2], che determina punto di vista, angolazione, taglio. La maggior parte dell’organizzato semantico viene investito in questa fase.

  • Organizzazione della pellicola

Questa fase consiste nel fare interagire la fotografia con la pellicola che la ospita. Una prima fase di questa interazione avviene già a livello di ripresa (nella fase precedente) ma in fase di sviluppo e fissaggio si possono determinare caratteristiche peculiari dell’immagine.
Lo sviluppo tecnologico ha imposto la tecnologia digitale. Alla luce di questo importante cambiamento è sempre più diffuso l’utilizzo di supporti elettronici, come il Sensore CCD che virtualizza l’uso dell’immagine rimandandolo a una sorta di camera oscura virtuale composta da computer e software di fotoritocco. Le differenze introdotte sono ancora oggetto di dibattito e in questa sede intendo evitarle. Sono comunque abbastanza intuibili.

  • Organizzazione della stampa
In questa fase intervengono due ulteriori elementi costitutivi: il primo concerne la possibilità di intervento sulla profondità dell’immagine, le ombre l’eliminazione di taluni particolari o l’accentuazione di altri; il secondo, invece, concerne il trattamento della superfice sensibile, a livello di grana, ingrandimento ecc.
E’ ovvio che dal punto di vista semiotico ciò che conta è il prodotto finale, l’oggetto di scambio comunicativo, l’immagine fotografica definitiva. Tuttavia è chiaro che tutte le quattro precedenti organizzazioni produttive sono “fotografia” e questo porta a una considerazione chiave dell’organizzazione del prodotto fotografico, lo spazio.
La fotografia, sostiene Calabrese, lavora su una doppia spazialità.
“Da un lato realizza uno spazio tridimensionale illusorio, dall’altro tratta uno spazio bidimensionale concreto. Una foto potrà essere allora esaminata da un punto di vista spaziale segnalando gli elementi pertinenti ad una specie di dialettica dello spazio”.[3]
In base a questa dialettica si possono avere due differenti situazioni: nel caso di una foto realistica, allo spazio bidimensionale dell’immagine viene associato un concetto di “normalità” che altri non è se non la sua capacità di rimandare allo spazio referente che è quello reale tridimensionale. Ogni deviazione da questa normalità sarà detta errore, se non intenzionale, o effetto, se intenzionale.
All’opposto si situano le foto astratte, nelle quali lo spazio referente è subordinato allo spazio bidimensionale quando non sia assente del tutto. Allora, l’immagine perde ogni contatto di referenzialità.
Tra questi due stadi estremi si colloca la stragrande maggioranza delle fotografie e la dialettica tra gli spazi diventa conflittualità. Il conflitto emerge nella dualità tra natura dello spazio referente e artificio dello spazio bidimensionale, lo spazio dell’enunciazione e lo spazio dell’enunciato.
Vi sono alcuni luoghi della foto, sostiene Calabrese, che costituiscono dei punti di rottura fra i due spazi. Questi sono:
  • I limiti del quadro

La linea che delimita la fotografia è il primo, più evidente limite. Essa, infatti, non dipende dall’oggetto fotografato ma dai limiti oggettivi del formato, quelli che nell’articolo citato sono detti “taglio convenzionale”, rispetto al quale si possono produrre due effetti: la prima è quella di trovare giustificazioni “realiste” del taglio che appartengono a una tradizione pittorica. I limiti della foto vengono fatti passare per limiti virtuali oltre i quali lo spazio reale continua. La realtà virtuale è una specie di porzione motivata di un intero. Quello che i linguisti chiamano implicito o non detto.
Nel caso contrario, la realtà virtuale è racchiusa consapevolmente in una scena teatrale che rivendica e autoproclama i suoi limiti oggettivi.

  • Le geometrie interne

Questa questione è intrinseca all’essenza profonda delle due tipologie spaziali, quella tridimensionale e quella bidimensionale. Vi è tutta una teoria della prospettiva che spiega come adattare su un piano bidimensionale le linee che determinano una figura tridimensionale.

Ci sono moltissimi casi di fotografia in cui viene spinta al massimo l’ambiguità della dialettica fra i due spazi. Si può ad esempio sottolineare coi più svariati messi tecnici la geometria di alcuni contorni degli oggetti in terza dimensione in modo da renderli anche una evidente geometria del piano. Oppure si possono mediante l’uso della luce contrapporre masse che diventano superfici astratte. O ancora si può intervenire sulla resa del colore in modo da far essere la foto ad un tempo figurativa ed astratta. O infine si può giocare sull’inquadratura, in modo che la percezione dell’oggetto sia ambigua e ne emerga a colpo d’occhio prima la natura piena che quella tridimensionale”.[4]

  • La trasparenza

Questo è l’elemento più complesso. Si sviluppa fra l’estremo che dipana l’identità di ciò che è rappresentato e l’altro estremo collegato alla specifica materialità del rappresentante, l’immagine.
Anche in questo caso, fra i due estremi vi sono infinite gradazioni di livello che dipendono da fattori come la grana, ad esempio che nega trasparenza all’immagine, dotandola di materialità nella misura in cui la allontana dalla sua idealità rappresentativa.
Il concetto di trasparenza è intimamente legato a quello di verità, dunque, e anche qui, l’avvento del digitale ha scombinato le carte in tavola, pretendendo ridefinizioni continue dello spazio fotografico.

NOTE
[1]cft Claudio Marra, Le idee della fotografia, Bruno Mondatori 2001, pag. 158
[2]cft op. citata, pag. 158
[3]cft op. citata, pag. 159
[4]cft op. citata, pag. 161-162


Bibliografia:
Claudio Marra, Le idee della Fotografia, Bruno Mondadori, 2001


Fotografie di Nino Migliori:
1- New York 1986 (polaroid)
2- Virgilio Guidi 1977
3- Muri 1950-54
4- Senza titolo anni '50

Commenti